Viaggio nella memoria cancellata
G. Gagliano - La zolfara estrazione del grezzo,1971
Perché, oggi, dovremmo perdere tempo con le ex miniere di
zolfo, quando ormai sono improduttive e abbandonate da oltre mezzo secolo? O
addirittura letteralmente cancellate e devastate come a Centuripe?
Forse per la curiosità della conoscenza, o forse per
l’istinto di perseguire la memoria. La memoria di inferno vero, nei cui labirinti, oscuri e mefitici, si
aggiravano affaticati, sudati e spesso nudi, poveri diavoli e piccoli dannati
di 8-10 anni, creature condannate al rachitismo e alla deformità per pochi
spiccioli al giorno.
Incisione tratta da Illustrazione Italiana,1894
Le zolfare sono
tutte chiuse, in Sicilia. Irreversibilmente. Questo breve contributo vuole solo
essere testimonianza che “i dannati delle zolfare”, non sono stati dimenticati;
le loro testimonianze, il loro sacrificio, il contributo reso alla dignità del
lavoro e alle loro famiglie, ancora vive.
I – L’oro del diavolo
Il rapporto tra la Sicilia e lo zolfo risale addirittura
all’età del bronzo. Da alcuni reperti epigrafici “Tegulae mancipum sulphuris” (tegole
degli appaltatori di zolfo), si evince che alla fine del II-III secolo d. C.,
erano attive nell’agrigentino alcune miniere di zolfo imperiali, nelle quali
lavoravano schiavi e delinquenti comuni.
Tegulae mancipum sulphuris
L’attività estrattiva era fiorente anche
in epoca araba. In seguito, per secoli, nessuno si è più occupato di zolfo,
finché l’invenzione e la diffusione della polvere da sparo non alimentò una
produzione limitata.
All’inizio del Settecento nell’Isola erano attive
appena sei miniere, alle quali se ne sarebbero aggiunte altre cinque verso la
metà dello stesso secolo. L'attività di
estrazione, ancora alla fine del '700, era fatta con metodi empirici e le
miniere venivano abbandonate non appena si esaurivano le vene affioranti dello
zolfo. La produzione annua non superava le 2.500 tonn. ed i prezzi medi si
aggiravano intorno alle 52 lire per tonnellata. Una data segnò il decollo dello
zolfo siciliano: il 1791, anno in cui venne brevettato il metodo Leblanc, che
consentiva di fabbricare la soda artificiale mediante la decomposizione del
sale comune trattato con l’acido solforico per produrre solfato di sodio. Il famoso
sapone di Marsiglia proprio lì veniva prodotto, perché alla soda sintetica, alle
saline e al calcare si aggiungeva un buon porto, a cui attraccavano le navi
provenienti dalla Sicilia.
L’importante
scoperta segnò la nascita della moderna industria chimica e, di conseguenza,
anche della domanda internazionale di zolfo siciliano. Da quel momento lo zolfo
siciliano entrò in quantità consistenti nei circuiti internazionali. Nel 1815
la produzione oscillava tra le 6.500 e le 9.000 tonn. ad un prezzo medio di 120
lire la tonnellata.
L’avvio di questa frenetica attività non fu semplice:
bisognava attraversare le impervie e solitarie contrade della Sicilia interna, a
malapena servite da vecchie trazzere, strette e disselciate, polverose d’estate
e fangose nella brutta stagione. Ma questo non impedì un rapido decollo delle
attività.
Nel 1808 l’abolizione dei diritti di monopolio regio
sul sottosuolo diede impulso all’attività mineraria. Un roseo avvenire si
schiuse allora per i proprietari terrieri e per quanti fiutarono l’odore dei soldi.
A render possibili questi rapidi arricchimenti fu anche una legge borbonica del
1826, in forza della quale i proprietari terrieri potevano sfruttare le risorse
del sottosuolo, previo pagamento di una modica tassa detta di aperiatur. Fiumi di denaro andarono così
ad impinguare la rendita mineraria del baronaggio.
La legge proibiva la combustione del minerale vicino
ai campi coltivali e a meno di tre miglia dai centri abitati, ma le fiamme
azzurrognole sprigionavano gas fin dentro i paesi, accanto alle vigne e ai
mandorleti, avvelenavano uomini, animali e piante. Le zolfare limitrofe ai
centri abitati disponevano di forni che consentivano di fondere il minerale
senza inquinare troppo l’ambiente. Ma la fusione comportava una spesa enorme.
Gli industriali di conseguenza la scartavano e continuavano a bruciare i
calcaroni. Poco importava insomma a quei signori se l’anidride solforica si
faceva sentire nelle strade della Comune, nelle case e nelle campagne a seconda
del soffio dei venti.
I soggetti più a rischio erano gli zolfatari. Quelli
esterni erano i carcarunara che si
occupavano del riempimento e dello svuotamento delle fornaci e gli orditura, addetti alla fusione del
minerale e alla raccolta dello zolfo fuso. Gli zolfatari interni erano: i
picconieri (pirriatura) che
estraevano il materiale; gli spisalora,
addetti alla manutenzione; gli acqualora,
il cui lavoro consisteva nell’eliminare le acque d’infiltrazione; i carrittera, che trasportavano lo zolfo
sui vagoncini fino alla discenteria e i carusi
che, caricati come somari, portavano lo zolfo fuori dalla miniera.
I carusi venivano assunti con il sistema del
«soccorso morto», ossia un cospicuo anticipo in denaro che il picconiere versava
ai genitori di fanciulli di 8-10 anni costretti a restare alle sue dipendenze
fino all’estinzione del debito. Passavano, insomma, gli anni migliori della
loro vita in condizione servile, i carusi.
E si dava anche il caso che fossero oggetto ludico delle insane voglie sessuali
dei loro padroni. Subivano violenze d’ogni sorta e dovevano pure stare zitti,
quando gliele faceva il loro picconiere.
La vita non era gioco per nessuno, in quelle bolge
infernali. Frane, incendi, allagamenti, crolli di ponti e gallerie erano però
eventi che non si potevano evitare. E gli zolfatari morivano, morivano e si
parlava di disgrazia, di destino infame, di maledizione divina caduta tra capo
e collo; nessuno denunciava la violazione delle norme di sicurezza del lavoro nelle
zolfare.
Lo zolfo durante il XIX secolo è
la principale risorsa della zona centrale della Sicilia, che godeva del
monopolio naturale (91% della produzione mondiale). L'industria chimica europea
e quella americana e giapponese dipendevano esclusivamente dallo zolfo
siciliano. Alla fine dell’800 in Sicilia erano attive circa 800 miniere; il
1901 fu in assoluto l’anno di massima produzione, con 540.000 tonnellate, ed
occupazione, con circa 40.000 operai, delle zolfare siciliane. Le miniere
cominciarono a chiudere una dopo l’altra verso la metà del Novecento, a causa
dell’agguerrita concorrenza dello zolfo statunitense, prodotto a basso costo.
“Ci ammazziamo a scavarlo (lo zolfo), poi lo
trasportiamo giù alle marine, dove tanti vapori inglesi, americani, tedeschi,
francesi, perfino greci, stanno pronti con le stive aperte come tante bocche ad
ingoiarselo: ci tirano una bella fischiata e addio!...E la ricchezza nostra,
intanto, quella che dovrebbe essere la ricchezza nostra, se ne va via così dalle
vene delle nostre montagne sventrate, e noi rimaniamo qui, come tanti ciechi,
come tanti allocchi, con le ossa rotte dalla fatica e le tasche vuote. Unico
guadagno: le nostre campagne bruciate dal fumo”. (Pirandello, il Fumo)
II - Miniere Centuripine
Probabile che le ultime generazioni di centuripini sconoscano che qui vi
siano state miniere di zolfo; a meno che
non abbiano avuto la fortuna di sentire da un parente, un racconto diretto, sulle
proprie o altrui esperienze di zolfataio.
Le miniere di
zolfo presenti, dalla prima metà dell’ottocento, nel territorio centuripino,
delimitavano l’estremità est del filone zolfifero Siciliano.
Ed ai margini è rimasta Centuripe nell’ambito del racconto bibliografico, imponente, sullo
zolfo e sulle miniere in Sicilia. Eppure Centuripe è annoverata tra quei
cinquanta comuni siciliani, dove la produzione zolfifera attrasse, all’inizio
del novecento, un flusso di mano d’opera tale da determinare un raddoppio
demografico; nel 1921 i residenti erano oltre 15.000, e non è difficile
immaginare i precari equilibri igienico-sanitari e l’esponenziale aumento di
criminalità diffusa.
Da una interessante relazione del 1887, Mario Gatto, Topografo ed
Aiutante Ingegnere delle miniere, illustra dettagliatamente la storia delle
solfare di Sicilia. Al periodo tra il 1820 e il 1830 assegna ed elenca anche le prime miniere sorte nel
centuripino, nell’ordine: Muglia, Minnè e Marmora. Al periodo tra il 1830 e il
1838 sono collegate le miniere di Salinà, di Monte Policara e Monte Guazzarano;
ad ampliamenti successivi devono la loro esistenza le miniere Marmora-Gualtieri
e Marmora-Palmeri.
La mappa del
territorio di Centorbi, redatta per il catasto borbonico dall’Arch. Bonaventura,
all’incirca verso il 1850, registra una unica zolfara in attività sul
territorio: quella di Muglia. Altre tre zolfare: Minnè, Marmora e Pietralunga
non sono in attività.
La miniera di Muglia, si trovava a sud del centro abitato, dove il
sistema collinare scade a ridosso della piana
di Catania. Proprietario ne era il barone Spitaleri.
Ancora oggi
sopravvivono alcuni ruderi di calcheroni e forni, oltre all’imponente centro
direzionale che continua incessantemente a implodere.
Qualche anno fa e venuto
giù con un colpo di vento anche il notevole camino che svettava sulla valle.
Gli
Spitaleri gestivano in economia la loro miniera, che era annoverata tra le 46
che superavano una produzione annua di 2.000 tonnellate; avevano avuto
l’intelligenza, come pochi altri, di lasciare indivisi i campi minerari, per
sfruttare scientificamente l’attività estrattiva. Alcuni giacimenti, in altri
casi, erano stati frazionati in numerose concessioni; ciò aveva finito per
frammentare i bacini minerari e aveva reso antieconomico lo sfruttamento.
Elisee Reclùs
La miniera fu visitata nel 1865 da Elisee Reclùs, geografo francese, che dopo un breve tour in città,
raggiunge il complesso minerario e, accompagnato, si inoltra dentro le gallerie
dall'atmosfera soffocante e dall' aria irrespirabile. All'interno nota le volte
basse, tagliate in modo irregolare e i pesanti pilastri digrossati dal piccone che sostengono il soffitto; “vaghi luccichii che compaiono e scompaiono
al riflesso vacillante delle lampade che sorgono qua e là dalla profondità
delle ombre; un momento s' intravvedono dei corridoi che sembrano infiniti, poi
queste lunghe prospettive svaniscono in un batter d' occhio e lo sguardo cerca
invano di scandagliare le tenebre: si sentono rumori strani, singulti, sospiri
provenienti dal ripercuotersi degli echi lontani. Vi sono gallerie piene di acqua sulfurea che
vanno drenate, per evitare che allaghino tutto, con pompe di prosciugamento. Attualmente
tutta questa sovrabbondanza di liquido, che altrove sarebbe una sì grande
ricchezza, è per la cava di Centorbi il danno principale, poiché se le pompe di
prosciugamento non funzionassero continuamente, l'acqua finirebbe ben presto
per sommergere l'immenso labirinto delle gallerie. Quattro poveri operai,
coperti soltanto da un grembiale come gli isolani dell'Oceania, e tuttavia
bagnati di sudore, girano incessantemente le manovelle delle pompe. Durante
otto lunghe ore, questi uomini, ai quali ogni intelligenza, ogni sforzo vitale
si porta necessariamente verso le braccia, non sono altra cosa che le appendici
muscolari dell' implacabile macchina. Questa gira, gira senza posa, e senza mai
fermarsi solleva le acque che risuonano nei tubi di metallo: essa solo sembra
vivere, e gli atleti che si succedono di otto in otto ore non sono che semplici
meccanismi: lungi dal dominare la macchina che mettono in moto, son essi i suoi
schiavi. La proporzione del solfo
contenuto nelle vene della cava di Centorbi è di circa il sei per cento. La
solfatara mette in commercio venticinque mila quintali circa all' anno,- cioè
quasi la cinquantesima parte del prodotto annuale di tutta la Sicilia”.
Nel 1881, l’istantaneo
allagamento della solfara, per pioggia torrenziale, determinò la morte di 9
operai. Il 30 marzo 1882 il barone Spitaleri, firma un contratto d'obbligo di
due anni con l'ing. Francese Antonio Calamel, inventore di forni di raffineria
di zolfo. Il 22 maggio 1882, il francese inizia la sua attività alla miniera di
Muglia quale direttore ed amministratore. In una nota, del 23 marzo 1883, il
Calamel notifica che le prescrizioni dei lavori per la sicurezza in miniera
prescritte dal Genio Minerario sono state attuate e che soprattutto tutti i
ragazzi sotto i dieci anni sono stati esclusi dai lavori sotterranei della
miniera. Il 1 gennaio 1888 cessa l'incarico della direzione presso la miniera
Muglia.
Nel maggio 1898 l'ingegner Angelo Baraffael, del
Distretto Minerario di Caltanissetta, in una delle sue visite a Muglia, aveva notato numerosi casi di una malattia,
spesso letale, che i medici del posto non riuscivano ad identificare. In
seguito, nel giugno 1898, fu confermata l'esistenza di una epidemia di Anchilostomiasi (anemia dei minatori
causata da un verme parassita dell’intestino tenue) e furono individuati
quaranta casi gravi, la maggior parte tra giovani minatori e bambini, e cinque
morti. Un'inchiesta concluse che gli anchilostomi erano stati introdotti dai
lavoratori di un'altra miniera, con la quale avvenivano di frequente scambi di
personale. Ma dalla relazione dell’Ing. Baraffael, emergevano altri aspetti di
quella realtà mineraria. Le misere condizioni economiche in cui vivevano quei
lavoranti, sfruttati in modo incredibile, erano peggiori di tutte le altre
miniere della Provincia. La miseria più squallida nella quale vivevano gli
operai, era correlazionata anche con le loro malattie. Le paghe di poco inferiori a quelle delle
altre miniere del territorio, non venivano riscosse mai direttamente e in
danaro. Sotto l'amministrazione Spitaleri si regolavano i conti con ritardi
talvolta di 6 o 8 mesi, in seguito con l’amministrazione del cav. Scuderi -
Alessi si regolavano mensilmente, ma i risultati erano i medesimi; durante il
mese di lavoro, gli operai, si indebitavano per i rifornimenti di generi dalla
bottega o cedevano le marche agli usurai del paese. I conti alla fine del mese
venivano liquidati, qualche volta, pagando gli operai con generi della bottega:
i denari erano riservati agli usurai che avevano molti riguardi per
l'amm.ne della miniera. Il proprietario della miniera, barone Spitaleri,
aveva appaltato anche la bottega, al direttore sig. Sagine e all'amministratore
sig. Alessi (lontano parente dell'esercente); essi vi anticipavano il capitale
occorrente e per compenso, percepivano ciascuno un quarto degli utili, mentre
l'altra metà veniva incassata dal barone. L'amministrazione non era assicurata
presso nessuna Società: per ferimenti o malattie venivano erogati sussidi ridicoli.
Le famiglie dei morti ed i malati di anchilostomiasi addirittura non venivano
neppure sussidiate; i malati, inabili al lavoro erano sprovvisti di qualsiasi
mezzo di sussistenza; in quelle condizioni la malattia inesorabilmente continuava
a propagarsi.
Tra l’altro
quella malattia, era da tempo conosciuta dall'esercente e da tutto il personale
della miniera. I medici locali, entrambi stipendiati dalla miniera Muglia,
conoscevano perfettamente la gravità della malattia avendone riferito
all'Amm.ne; anche il delegato di P.S. era stato informato attraverso un reclamo,
ma non aveva mosso un dito, tutto era stato messo a tacere dall'Amministratore
della miniera.
La miniera di
zolfo Minnè, ampia circa 30 ettari, si trovava al margine est, dell’area
mineraria centuripina. Notizie su questa miniera emergono da alcuni documenti pubblici.
Il 18 maggio 1888 con atto stipulato tra il sindaco di Centuripe, Giovanni
Testai, e l'ing. Antonio Calamel, ex direttore della miniera di Muglia, veniva
conferito a quest'ultimo il ruolo di gabellotto ed esercente le zolfare
Marmora-Palmeri e Minnè, di proprietà “ab
antico” del comune; la direzione dei lavori delle miniere veniva affidata
invece all'ing. minerario conte Vittorio Castagneti de Chateauneuf. Nella
medesima nota si evidenziava come quelle miniere, malridotte e sfruttate,
fossero da parecchi anni, quasi abbandonate, sebbene il Comune volesse
concederle a condizioni più che vantaggiose. Grazie all'intraprendenza ed ai
capitali investiti dai due ingegneri francesi si sarebbero potute trasformare
in una vera “sorgiva di ricchezza”. Ma da lì a qualche anno non si sarebbe
sentito più parlare della miniera di Minnè; dalle testimonianze raccolte un
quarto di secolo fa, si riscontrò come fosse addirittura sconosciuta ai
minatori centuripini di inizio novecento. Sui luoghi, fino a qualche anno fa,
erano visibili i resti di qualche fornace sepolta tra la vegetazione.
Probabilmente, durante il breve periodo in cui fu in attività, lo zolfo si
portava a spalla e mai quella collina vide mezzi meccanici per l’estrazione.
La miniera
Marmora-San Giovanni, estesa 16 ettari,
occupava, nell’ambito dell’alveo zolfifero della contrada Marmora, la parte
più alta a sud-ovest dove il pendio si inerpica in direzione Piano Pozzi. Secondo
alcune testimonianze, era, agli
inizi, il bacino più ricco e aveva lo zolfo di migliore qualità. Ha avuto una doppia vita, molto produttiva con
la gestione Castro - Nicoletti, prima della seconda guerra mondiale e dal 1946,
con la gestione Tobia, utilizzata solo per ulteriori ricerche.
La miniera Marmora-Palmeri,
ampia 24 ettari, occupava l’area a sud della contrada denominata Marmora. La
prima mappa della miniera, del 30 giugno 1834, registra uno sconfinamento sotterraneo delle
gallerie verso la contrada Chieffi.
La particolarità di questa miniera era relativa al
giacimento che superava i 60° di inclinazione ed era rovesciato. L'8 marzo 1891
il sindaco di Centuripe rinnovava il contratto all'ing. Calamel per la
conduzione della miniera Marmora-Palmeri. Il 24 aprile dello stesso anno l'ing.
Calamel chiedeva al sottoprefetto di Nicosia di poter usare nella miniera
Marmora-Palmeri le mine al posto del piccone, causa la durezza del minerale.
Infine, il 9 settembre 1893, dopo l'improvvisa morte in miniera dell'ing.
Calamel, conduttore delle solfare comunali, il consiglio comunale di Centuripe
affidava il ruolo di gabelloto all’Ing. Vittorio Castagneti.
Cartolina postale - 1931
Una cartolina postale del 1931, con i lavoratori in
posa statica, probabilmente doveva veicolare un messaggio da reclame; mostra una miniera in buona
salute, quasi da azienda privata che deve trovare gli spazi commerciali per il
proprio prodotto, ma lo zolfo statunitense non concedeva tregua e il destino,
anche per queste realtà da cartolina, era già segnato.
La miniera
Marmora-Gualtieri, ampia circa 19 ettari, occupava l’area a ridosso della
Regia trazzera Centuripe-Biancavilla, oggi S.P.n°41. Fu l’Ing. Vittorio
Castaneti de Chateauneuf, ad intuire e individuare lo zolfo della Gualtieri. La
miniera apparteneva alla famiglia Avarna dei duchi di Gualtieri, ed era gestita,
così come il patrimonio di famiglia, dal senatore Nicolò Avarna.
Sen. Nicolò Avarna Duca di Gualtieri
Il fratello,
senatore Giuseppe era un diplomatico; nella sua qualità di Ambasciatore
italiano a Vienna, fu lui a consegnare la dichiarazione di guerra dell'Italia,
all'Austria-Ungheria il 23 maggio 1915. Giuseppe morì l’anno successivo. Nicolò
morì nel 1920 ma non lasciò il patrimonio e le miniere a Carlo, figlio del fratello Giuseppe, bensì al figlio
di Carlo che all’epoca aveva solo quattro anni; infatti Carlo Avarna era stato ripudiato
dalla famiglia perché aveva abbandonato la moglie e i figli, per accasarsi con
una ballerina. Vi è al riguardo tutta una “curatela testamentaria dell’eredità
del duca di Gualtieri”. Paradossalmente anche il piccolo erede Giuseppe, una
volta maturo seguì le orme del padre, abbandonando a sua volta moglie e tre
figli per una hostess americana. Ma questa è un’altra storia.
Le testimonianze, numerose, che sono arrivate ai giorni nostri,
provengono da esperienze maturate proprio in quella miniera. Era una miniera
pericolosa, gli scoppi di grisou erano
continui; gli incidenti, anche mortali, erano all’ordine del giorno.
Nel 1933, anno di maggior produzione, la miniera
contava almeno 300 operai, molti provenienti da Enna, Caltanissetta e
Villarosa. I forestieri con le loro famiglie, alloggiavano nelle casette; c’era
anche un locale adibito a scuola, adiacente la cabina elettrica. Il villaggio
minerario, aveva una grande vasca circolare per l’acqua potabile e, dal 1927,
uno chalet in legno per l’amministrazione.
Il villaggio minerario.
La miniera Gualtieri era l’unica dotata di un doppio
binario nel piano inclinato; ciò consentiva di tirare fuori il materiale con
maggiore intensità. A differenza della San Giovanni e della Palmeri che
contavano su sei forni ciascuna, la Gualtieri aveva a disposizione oltre
diciotto forni Gill e un calcarone.
Le fornaci, i depositi e la sala motori.
La
sovrapproduzione di zolfo, del 1933, costrinse a realizzare un piano inclinato
sussidiario, per portare il materiale al gruppo di forni della miniera di San
Giovanni. Gandolfi, che dirigeva il complesso, aveva istituito anche un allarme
a rintocchi; gli infermieri erano sempre presenti.
Dal 1942 il numero degli operai, dell’intero gruppo di miniere
Gualtieri Palmeri e San Giovanni, si riduce a 200 unità. L’ospedale, fatto
costruire dal distretto minerario di Caltanissetta, non fu mai utilizzato,
la crisi arrivò prima.
Probabilmente la Gualtieri è l’ultima miniera produttiva che chiuse i
battenti nel centuripino; all’inizio degli anni ‘50, quando il mercato ormai
era chiuso allo zolfo siciliano, si cercò disperatamente di risollevarne le
sorti rilevandola con una cooperativa sociale, ma era solo il canto del cigno,
il destino era ormai segnato.
Area della miniera spianata e ruderi delle casette - 1990
I ruderi, dei forni della miniera, erano visibili fino alla metà degli anni ’70, in seguito l’area è stata spianata con mezzi meccanici. Oggi è occupata, in parte, dai capannoni della zona artigianale.
Giuseppe
Gagliano, raffinato e stimato pittore naif centuripino, da caruso aveva vissuto la realtà mineraria
sulla propria pelle. Poi la vita gli riservò per fortuna un diverso cammino
professionale. Dedicò alle attività della miniera, due bellissimi dipinti che
ritraevano le attività della miniera Marmora-Gualtieri all’esterno (1970) e l’estrazione
dello zolfo all’interno dei cunicoli (1971).
G. Gagliano - La zolfara - 1970
Il primo dipinto è molto più di un
quadro o di una testimonianza: è un vero e proprio libro aperto sull’ambiente
minerario racchiuso dentro il paesaggio centuripino. L’amore per il proprio
paese, trascende il reale, ricolora gli sterri e il colore giallastro di un ambiente bruciato dai fumi della combustione
dello zolfo.
Ogni pennellata porta con sé un indizio importante,
niente è lasciato al caso; il ricordo, nei pensieri di Gagliano è ancora vivo
quasi immortale. Basterebbe osservare i due dipinti accostati, per sviluppare
un’idea generale sulle miniere di zolfo.
Antonino
Amore, catanese di nascita, a
Centuripe nel luglio del 1950, visita le miniere con il suo blocco da schizzi e
le matite, per il desiderio di vivere
l'esperienza dei minatori.
A. Amore - Minatore, schizzo su carta - 1950
Disegna e
bagna di sudore i fogli del blocco; il dramma e
la fatica dei minatori, con i quali condivide quella esperienza, emerge
dai suoi tratti veloci e curiosi.
Salvatore Calì, poeta e
scrittore centuripino, vive dalla più tenera età l’esperienza drammatica del
lavoro in miniera. Nei suoi racconti e in alcune poesie, descrive la fatica e la
sofferenza della sua esperienza.
La miniera Salinà, a
sud-ovest da Centuripe, era gestita da Sportaro, vi era in zona anche una
miniera di salgemma, gestita da Gallone. Entrambe non hanno avuto fortuna.
La miniera Policara, 1,5 km.
a sud della Contrada Marmora, era una piccola miniera senza velleità; il
materiale, una volta tirato fuori, si portava a spalla fino a una terziglia di
forni, i cui ruderi sono ancora visibili.
Nell’area dove insisteva il piano inclinato hanno collocato, alla fine degli anni ’80, la nuova discarica comunale.
Nell’area dove insisteva il piano inclinato hanno collocato, alla fine degli anni ’80, la nuova discarica comunale.
Nella seduta del Senato della Repubblica n° 563 di mercoledì
25 settembre 1957, il senatore Antonio Romano, nel suo lungo intervento su
discipline sindacali e del lavoro citava: “Nel
luglio scorso in una miniera di zolfo nei pressi di Centuripe sono rimasti
sepolti vivi alcuni operai ed il Direttore Ingegnere Giuseppe Cimigna”.
Ing. Cimigna Giuseppe
I corpi delle vittime furono
tirati fuori dopo parecchi anni. Cimigna era il cugino che non conobbi mai.
Enzo Castiglione
Bibliografia
breve:
-
G.U.R.I. N°151
del 21 giugno 1966 – Decreto Presidente della Repubblica 31 maggio 1965, n.
1713.
“Elenco delle miniere, cave e torbiere esistenti nel territorio della
Sicilia”.
- R. Turco: Raccolta di leggi, decreti, regolamenti,
ordinanze e circolari vigenti in Sicilia per le miniere, Caltanissetta,
Tip.Petrantoni, 1912, pp.600;
- F. Squarzina: Produzione e commercio dello zolfo in
Sicilia nel sec. XIX, Torino, I.L.T.E., 1963, pp. 200;
- AA.VV. : "L'industria mineraria zolfifera
Siciliana" (Torino, 1925)
- C. Coco: " Cenni storici sulle miniere di
zolfo" (Catania, 1905)
- L. Parod: "Sull'estrazione dello zolfo in
Sicilia e sugli usi industriali del medesimo" (Firenze, 1873)
- R. Travaglia: " I Giacimenti di zolfo in
Sicilia e la loro lavorazione" (Padova, 1889)
- V. Amico: " Dizionario topografico della
Sicilia"
- Pagano: " Per la storia delle miniere di zolfo
in Sicilia" All'interno di " Rivista mineraria Siciliana" (Ottobre
1953)
- Sebastiano Addamo: Zolfare di Sicilia, Saggi di G.
Barone ed M. Cassetti, Palermo, Sellerio, 1989
- La sanità pubblica italiana negli anni a cavallo
della 1a guerra mondiale di Donelli, Di Carlo – Armando Editore, 2016
- Le vie dello zolfo in Sicilia – AA.VV. – Officina
Edizioni, 1991
- Eliseo Reclùs – La Sicilia e l’eruzione dell’Etna
nel 1865, Brancato Editore, 2000
- Baraffael A. - Rapporto sulla visita eseguita alla
miniera Muglia giugno 1898 – Caltanissetta giugno 1898
- Mario Gatto: Cenni sulla storia delle solfare di
Sicilia, 1887;
Racconti
Rosso Malpelo – Giovanni Verga, raccolta Vita dei
campi 1879
Ciàula scopre la luna – Luigi Pirandello, Novelle per
un anno 1907
Un filo di fumo
- Andrea Camilleri, Sellerio 1980
Film
La discesa di Aclà a Floristella di Aurelio Grimaldi,
1992