martedì 30 gennaio 2018

In Vino Veritas

In Vino Veritas

1.     Il vaso dei misteri
Centuripe 1824. Presso un antico sepolcro di C/da Gelofia un contadino rinviene un vaso d’argilla; le pessime condizioni del vaso, lo destinano ad un ordinario uso domestico: con esso il figlio del contadino va a prendere l’acqua presso una delle sorgenti della medesima contrada.


Qualche anno dopo, per caso, lo nota un notabile del luogo che, dopo averlo acquistato, lo spedisce ad un suo amico a Palermo, tale barone Pisani; presso l’abitazione del barone, il vaso viene sottoposto alle attenzioni di un professore di lettere antiche, Giuseppe Crispi, il quale ritiene di darne notizia con una sua memoria, immediatamente pubblicata nel 1830.
Ad oggi sono sconosciute le vie che lo hanno poi condotto in Germania, al Museo di Karlsruhe, dove forse non è manco esposto al pubblico.


Si tratta di una Askòs, risalente a oltre 2500 anni fa, emisferica nella parte bassa e convessa nella parte superiore, li dove campeggia la più lunga iscrizione in lingua sicula fin qui ritrovata, sicuramente una delle fonti più importanti per la conoscenza del siculo. L’iscrizione è costituita da lettere senza spazi, in scriptio continua che sviluppano due righe circolari attorno al manico. Nel corso degli anni numerosissimi studiosi si sono prodigati a dare interpretazioni e ipotesi all’iscrizione.  Qualcuno di essi pur di dare conferma alla propria tesi, ha anche aggiunto o tolto qualche lettera a piacere dall’iscrizione, che invece è incisa con precisione.


Il vino, in decine di traduzioni, c’è sempre! Una vera e propria ubriacatura culturale. Una  interessante tesi (leggermente riveduta tra il 1999 e il 2003), del centuripino Enrico Caltagirone, accostando il testo al sanscrito, esclude però che nell’iscrizione  ci sia qualsiasi riferimento al vino.
Tra le interpretazioni che optano per il vino, l’interpretazione di Marcello Durante, sembra tra le più gradevoli: 
Nuno offre me, il vaso: sono cosa tua, è un dono o Nane; poiché un dono sono, tuo è il diritto di proprietà; non pongano gli eredi vino cotto qui (dentro)”.


La tipologia del vaso è parecchio diffusa; ne sono testimonianza la decina di Askòs anepigrafi ritrovate durante gli scavi delle tombe arcaiche di Piano Capitano, oggi esposte nelle vetrine del Museo Archeologico di Centuripe o in deposito nel medesimo.
L’askòs centuripina, oggi a Karlsruhe, è intrisa di parecchi contenuti: la lingua sicula, il vino (forse), le radici antiche della scrittura a Centuripe, e, purtroppo, la sottrazione dei beni, che hanno contraddistinto la nostra recente storia, con la irresponsabile onnipresente complicità degli indigeni.
Il vino è comunque, tra questi contenuti, l’elemento più incerto e quindi il più allegro. E’ indubbia l’importanza che il vino abbia avuto nell’antichità, prima ancora che nell’arte e nella letteratura. Scorrazzava, come l’olio, dentro le anfore su e giù per il mediterraneo, i contenitori una volta “svuotati” venivano anche riciclati e lasciavano importanti tracce archeologiche anche se in frammenti. 
Piace però pensare che la parola scritta “vino”, anche se portatrice sana di un diverso significato, abbia esordito proprio a Centuripe; a testimonianza di una cultura enologica millenaria. Forse è anche per questo che l’Organizzazione Nazionale Assaggiatori di Vino, sezione  di Enna, recentemente, ha dedicato all’askos centuripina un premio annuale, che nelle passate edizioni è stato assegnato alle figure più rappresentative in campo enologico a livello regionale.

2.     Centuripe e il vino
Le colline assolate e ventilate del centuripino si sono prestate nel passato ad ospitare preziosi vigneti. La presenza colturale e l’espansione della vite nel centuripino è già attestata nell’antichità. Qui, un tempo, la viticoltura prosperava abbondantemente, favorita anche dalla particolare configurazione topografica del territorio, prevalentemente montuoso. E’ risaputo che la vite prospera bene su terreni collinari, magri e secchi, dove si ottengono dei buoni vini apprezzabili sia per le loro caratteristiche organolettiche che per la loro discreta gradazione alcolica. La sistemazione a terrazze delle colline, nel centuripino, avvenuta negli ultimi  tre secoli, ha favorito una più razionale coltivazione della vite.
La piantumazione più diffusa e adatta alle zone collinari è quella ad alberello, impostata su tre o cinque branche che si dipartono dal ceppo. Risulta, dal punto di vista tecnico, la più vantaggiosa; non necessita di particolari cure colturali ne di sostegni, le spese di impianto e di esercizio risultano abbastanza contenute. Tuttavia  presenta lo svantaggio di essere poco produttiva e antieconomica a causa della ingente manodopera.


La difficoltà di praticare la meccanizzazione, su terreno prevalentemente acclive, ha ridotto drasticamente la coltura della vite nel centuripino.  Resistono alcuni vigneti, sui pendii più morbidi di alcune contrade a sud-ovest dalla città; in alcuni casi si riscontra il sistema di allevamento a controspalliera, che risulta molto più produttivo di quello ad alberello.
Sul territorio centuripino sono anche presenti decine di strutture, che nel passato ricoprivano il ruolo di palmenti e che consentivano la produzione di mosto, direttamente nel medesimo luogo in cui l'uva veniva coltivata e raccolta.
Con la meccanizzazione del processo di trasformazione dell'uva, che ha consentito di ottenere anziché 60, anche 90 litri di mosto da 100 kg. di uva, i vecchi palmenti rurali hanno subito un drastico declassamento, che ha comportato lo smantellamento e l'abbandono, a volte delittuoso, degli antichi impianti. 
I vecchi palmenti, si riconoscono da alcuni elementi quali le vasche per la pigiatura dell’uva e le vasche di decantazione del mosto. In alcuni casi dalla sola presenza di frammenti di torchi, distrutti anch’essi dalla sete di modernità e dall’incoscienza. 
A parte qualche impianto dismesso, individuato presso le grandi masserie rurali di Sciarone del Duca e di Aragona, numerosi sono gli ex palmenti, anche di piccole dimensioni, che gravitavano nelle aree circostanti la città, segno che, fino al secolo scorso, le pendici centuripine erano ancora rigogliose di vigneti.

3.     Il palmento della memoria
Presso la contrada Crescinotto, miracolosamente, si conserva un palmento rurale che ha continuato ad essere produttivo, utilizzando le più antiche procedure per la produzione del vino. Fu acquistato nel 1964 dal signor Cocimano Antonino, classe 1931, che lo rilevò dal signor De Marco Vito, da allora è stato utilizzato per la produzione in proprio, in quanto la tenuta è completata da un vigneto di medie dimensioni.


Solitamente, fra la fine di settembre e gli inizi di ottobre il proprietario provvedeva  alla raccolta e alla trasformazione dell'uva prodotta nel proprio fondo.
In media venivano prodotti 2.000 litri circa di mosto all'anno; di tale quantità una buona parte era per il consumo familiare, il resto veniva venduto ad un costo che negli anni ha subito notevoli variazioni: dalle 150 lire del 1964, alle 1800 lire del 1992, etc... 


L'elemento determinante del palmento è sicuramente l’antico torchio, che fa parte di un insieme strumentale che comprende il pestatoio e le vasche di raccolta che servono nell'insieme per il processo di vinificazione.
Già nel I sec. d.C. in Italia erano diffusi due diversi tipi di torchi vinari: quello tradizionale a leva (catoniano - dall’agronomo Catone il Vecchio che ne descrisse il funzionamento), che sostituendo il precedente a verricello, con un contrappeso e una vite senza fine di sollevamento, consentiva un’azione di premitura maggiore e il Torchio descritto da Plinio con vite centrale e telaio a due colonne, oggi detto alla genovese. Queste due tipologie di torchio sono sopravvissute per due millenni.


Il torchio a leva, di questo palmento, ha le caratteristiche riconducibili ad un modello catoniano, anche se con leggere variazioni. È caratterizzato da una massiccia trave orizzontale in legno, lunga oltre 6 metri, cosiddetta capiforca, alla quale è fissata ad una delle sue estremità, una traversa di legno, la scrofula con filettatura a madrevite.


L’altra estremità, più sottile, sempre biforcuta, incastra il capiforca a una robusta asse verticale, fissata al muro, che fa da guida per lo scorrimento verticale. 


Attraverso la scrofula passa, in verticale, una grossa vite senza fine in legno, u virmigliuni, fissata mediante una lastra di ferro ad una grossa pietra tronco-conica, che funge da contrappeso; la pietra è alloggiata a sua volta in una profonda buca scavata nel pavimento. La vite senza fine viene azionata da una barra orizzontale in legno, che alza e abbassa u capiforca grazie alla scrofula  con madrevite. Alla distanza media del capiforca vi sono stipiti e fermi in legno che permettono di regolare l'altezza del capiforca dal pavimento sottostante, che funge da seconda piastra durante la pigiatura. È indubbia la sensazione, in questo luogo, di percorrere un affascinante viaggio a ritroso nel tempo; probabile che perfino duemila anni fa la location e molti altri elementi che corredavano il ciclo della vite, non dovevano essere molto diversi da tutto ciò.

4.     In Vino Veritas
L’Askòs centuripina di Karlsruhe la potremo ammirare solo in foto, così come qualcun’altro delle migliaia di altri preziosi reperti, che sono stati sottratti alla collettività e svenduti per arricchimenti personali. Qualcuno ne avrà beneficiato comprando un mulo o un pezzo di terra o un casetta; ma ne valeva la pena? Il mulo è ormai morto, il pezzo di terra abbandonato e la casa vuota. Dovevamo costringere il mondo a venire da noi, invece abbiamo disperso un patrimonio nel mondo e con esso molti dei nostri concittadini. Quanti soldi avrà messo in tasca il tizio che è riuscito a fare arrivare questo torso loricato fin su al nord?


O quell’altro che nottetempo ha sottratto questo ritratto marmoreo dall’Antiquarium?


Potremmo continuare all’infinito. La ricchezza del territorio è stata depauperata: ne valeva la pena? Tutte risorse sottratte alla collettività. Poi ci si lamenta delle istituzioni ed evitiamo di accorgerci che chi ci sta accanto depreda il futuro della città!  
I vasi centuripini più belli non sono a Centuripe. Però ci possiamo crogiolare all’idea che intanto un museo archeologico parallelo è disperso in centinaia di case centuripine. Benedetta ipocrisia.
Forse l’askòs con l’iscrizione sicula non è stata donata da Nuno a Nane per metterci dentro il vino durante il viaggio per l’oltretomba, vedremo. I vigneti purtroppo sono spariti a frotte dalle terrazze centuripine: troppo onerosi e difficili da gestire. Anche di questo possiamo farcene una ragione.
Ma stiamo pericolosamente inseguendo un futuro di chimere. La salvaguardia e le attenzioni per i beni culturali, che ancora potremmo salvare, svaniscono. Se non ci diamo una mossa, alla fine saremo sopraffatti dall’opera di intere generazioni di depauperatori del territorio, che intanto sono riusciti a fare schiere di proseliti, sostenuti da progenie di detrattori. 

Enzo Castiglione

Bibliografia:
-        G.B. Pellegrini, in « Kokalos », III, 1957, pag. 31 e seg.
-        Giacomo Manganaro, in « Arch. Class. », XIII, 1961, pag. 107, nota 7
-        Marcello Durante - Kokalos, X-II, 1964-65, pagg. 417-450.
-        Filippo Ansaldi, Memorie storiche di Centuripe, Ediprint Catania 1981
-        Enrico Caltagirone, Alla ricerca della grande madre, pagg. 59-60 e 122-125, Marna 1999
-        Enrico Caltagirone, La lingua dei Siculi, Pagg. 53-58, Marna 2005

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